Che se ci ripenso, non so mica come ho fatto a divorare così questi 8 mesi. I just did it, that’s all I know. I did it again, actually. Ho instillato in questa esperienza – come ho sempre cercato di fare everywhere around the world – tutto quello che avevo dentro, senza pensare troppo all’avenir. Fatigant. Épuisant. But extremely gratifying, after all. Ho scommesso un oceano di idee ed energie in questo continente dimenticato da Dio e dal Fuso Orario, un oceano di progetti e speranze in questi mesi dall’alterna intensità; tutto questo, nonostante avvertissi (e avverta tutt’ora) la transitorietà sporadica del momento che st(av)o vivendo: devo pur andare a finire da qualche parte, continuo a ripetermi; ma non so dove…Ecco, forse è il concetto di “finire” che mi risulta ostico. Ci sto lavorando, onestamente lavorando.
Non ho rimpianti e in fondo è quello che conta. Could I really ask for more? Si può sempre ottenere di più, for sure (tutti chiedono qualcosa in più, sempre); ma la consapevolezza di aver costruito dal nulla una poliedrica dimensione sostenibile e vivibile fatta di tante piccole routines e di tanti piccoli contesti – per me, così refrattario alla sedentarietà – vale da sola ogni singolo giorno di questi otto mesi. Nonostante i difetti miei e di questo mondo; nonostante il tempo insufficiente e le distanze incolmabili; nonostante i rapporti tanto intensi, quanto occasionali, o l’amarezza suscitata da chi chiede il conto senza neppure aver ordinato; nonostante tutto, non ho rimpianti. Siatene pigramente aware.
Ci sono episodi, situazioni, dettagli, atmosfere che portano già addosso l’odore e le tinte della fine. Le tinte della fine sono solitamente pallide e sfumate, ma non opache. Abbancinanti, piuttosto. Gli odori, invece, sono più intensi e pungenti che mai, quasi la memoria olfattiva si sforzi di catturare ogni minimo dettaglio before it’s too late; before the end. L’esperienza entra così in post-produzione e assume già le sembianze del souvenir. Per dire che ieri al Coasit l’aria era proprio questa: salutibaciabbracci e gli insoliti auguri natalizi immersi nell’afa di un tardo pomeriggio melbourniano.
Yesterday, at school, per una machiavellica combinazione di assenze/supplenze, mi sono ritrovato a tenere una lezione cosiddetta “normale” – ovvero non di italiano, giacchè the Italian lesson è considerata una special subject insieme ad arte, drama, musica, ginnastica, scacchi (sì, scacchi) e quant’altro – dicevo, yesterday mi sono ritrovato a tenere una lezione normale ad una classe di grades 5 particolarmente calda. E così ho potuto osservare più da vicino come viene programmata una ideal-tipica giornata scolastica di alcuni rampolli della baia proverbialmente indisposti a stare seduti. Ebbene, il concetto passatista di lezione con cui sono cresciuto nell’arco di tredici anni di studi, assume qui i contorni de l’éphémère. Dopo appena una mezz’oretta di frazioni, durante la quale forse neppure un quinto della classe aveva completato gli esercizi assegnati, gli enfants prodige si sono precipitati in biblioteca, ma mica per prendere in mano un libro, ci mancherebbe, bensì per mettersi a giocare a mini-golf davanti al pc. Un’ora intera. The purpose? None. Una cosa, insomma, che avrebbe annoiato anche il più incallito amante della playstation, senza, per altro, insegnare alcunchè. Ora, passi pure l’accettazione di metodi pedagogici moderni e diversi da quello gentiliano, ma qui siamo al paradosso del non-method. Almeno capisco, però, come mai trascorro la metà del mio tempo a correggere lo spelling in inglese invece che insegnare l’italiano. The Grammar, questa sconosciuta.
Postilla con video. Di Roberto Saviano l’Italia aveva (e ha) estremamente bisogno. Forse troppo. Dico “forse troppo” per una duplice ragione. Non voglio discutere qui le sue posizioni, nè tantomeno la sua persona, quanto piuttosto il suo ruolo. Primo, è incredibile quanto sia difficile oggi, in Italia, fare quello che lui fa, ovvero del sano giornalismo d’inchiesta (lo ripeto, nel caso possa servire: gior-na-li-smo d’in-chie-sta), senza per questo finire a pagina 22 del quotidiano di turno; una difficoltà che nasce dall’imperizia, certo, dalla mancanza di tempo e di dedizione, dal passivo assoggettamento a logiche di potere superiori, e così via; ma soprattutto, ahimè, dalla paura di sporcarsi camicia, mani, volto, nome e cognome, sospinti innanzi, non da lode e compensi, ma dalla viscerale volontà di sapere e di capire. C-a-p-i-r-e. Saviano non è l’unico, ben inteso; ma ci troviamo di fronte pur sempre ad una desolante minoranza. Secondo, ho l’amara sensazione che il crescente peso che Saviano deve sopportare sulle proprie spalle, la responsabilità di rappresentare una voce alla quale con sempre più fiducia le persone tendono l’orecchio per informarsi ed essere criticamente svezzate, sia un fardello finanche eccessivo. Spero non abiuri mai la sua condotta onesta, una condotta che va al di là di ogni pregiudiziale. Il resto – tutte le polemiche che gli ruotano intorno – sono solo l’eco stridula dei Bar dell’Invidia.